Open Singing: cantare insieme è pura felicità!
Intervista a Michael Gohl

La prima volta di Michael Gohl a MITO Settembre Musica risale al 2016, quando il direttore svizzero fece scoprire alle due città il piacere di trovarsi in piazza a cantare tutti insieme. «Fu in molti sensi una sfida e una cosa unica – ricorda Gohl – e devo ringraziare Nicola Campogrande per la sua idea e la sua visione. Generalmente gli Open Singing avvengono in contesti, come festival di cori o campi per la gioventù, in cui più o meno sai che cosa aspettarti. Con MITO invece la cornice era quella di un famoso festival di musica classica, quindi tendenzialmente elitario, ma i luoghi dell’esibizione erano piazza San Carlo e Piazza del Duomo, pubblici e popolari: una contraddizione che forse solo cantando si poteva risolvere!»

Grandi luoghi aperti significa anche grandi problemi organizzativi…
«Proprio per questo va pianificato tutto con grande attenzione, l’aspetto acustico-visuale, il sostegno del coro pilota e del pianista e, la cosa più importante, il repertorio “perfetto”, in grado di offrire a ciascuno qualcosa di buono. Un po’ come nel buffet di un matrimonio, in cui non vorresti scontentare nessun ospite. Detto ciò, in tutta sincerità ero alquanto scettico e mi chiedevo “Verrà qualcuno? E se anche venisse, canterà davvero o se ne starà lì ad ascoltare?”. Gli organizzatori ebbero la saggia idea di invitare un coro professionale, il che costituì una solida base. Ma chi avrebbe mai creduto che sarebbero arrivate più di diecimila persone in entrambe le piazze? D’accordo, non tutti hanno cantato, ma intanto sono rimasti lì per ottanta minuti anziché andare a mangiare la pizza e questa è stata per noi una gioia immensa! Quest’anno, d’altra parte, sono contento che saremo in sale da concerto (il 7 settembre alle Officine Grandi Riparazioni di Torino e domenica 8 al Conservatorio di Milano; ndr). L’acustica ci aiuterà a creare un “body and soul” musicale che all’aperto è più difficile».

Che atmosfera sente intorno a sé in questi casi e qual è la differenza, per esempio, rispetto a contesti più tradizionali, con un coro professionale in una sala da concerto?
«Ci sono somiglianze e grandi differenze. Come in un concerto, il pubblico si aspetta un evento musicale, ma qui, allo stesso tempo, è invitato a partecipare, senza prove. Un disastro, da un punto di vista strettamente professionale, ma noi vogliamo rompere il muro di vetro che separa gli artisti sulla scena dal pubblico pagante in sala. Ci rivolgiamo al pubblico in modo amichevole, dando a ciascuno piena libertà di partecipare o meno secondo le proprie abilità. Ma non vorremmo semplicemente creare un evento “divertente”, come una partita di calcio o un concerto pop. Abbiamo anche l’ambizione di dare vita a esperienze veramente musicali, dalla pura felicità del canto fino a una maggiore profondità e complessità. La vita ha qualcosa in più da offrire del semplice divertimento. Ed è importante non sottovalutare mai la capacità del pubblico di emozionarsi musicalmente!»

Diamo uno sguardo generale al programma 2019, che propone grandi compositori, da Bach a Puccini, accanto a brani di jazz, popular music, ecc. C’è un fil rouge che collega i brani?
«Riprendendo la metafora del pranzo di matrimonio, dovremo accontentare chi già canta in un coro e chi invece non ha esperienza. Per questi ultimi è importante che nel programma ci siano pezzi che hanno già nell’orecchio. Sono felice quando lavoro in Italia perché molta gente conosce e canta i cori delle opere, questo in Svizzera non funzionerebbe. Inoltre, per andare incontro a generazioni differenti, abbiamo scelto successi pop di epoche diverse. All’inizio per mettere insieme “cantanti di coro” e “normali partecipanti” sceglievo dei canoni belli e facili che in poco tempo fanno sentire il pubblico parte di un grande coro. Questa volta però voglio fare qualcosa di speciale: il Dona nobis pacem dalla Messa in si minore di Bach può essere cantato come un semplice canone a quattro voci. Io insegnerò al pubblico questo canone, dopodiché canteremo il più complesso originale con il coro pilota e i cantanti che già lo conoscono, e ogni volta che apparirà il tema principale io inviterò con un gesto il pubblico ad unirsi a noi. In questo modo, chiunque lo voglia potrà prendere parte a uno dei più bei pezzi della letteratura per coro.
Come si vede il fil rouge è quello di valutare al meglio il “bio-ritmo” e la complessità del pubblico, il fatto che le persone agiscono in modo diverso se si trovano in una massa o nel loro ambiente familiare. Qui ci soccorre l’ esperienza: dobbiamo cambiare il carattere e la difficoltà delle canzoni ogni 5-10 minuti, al fine di non perdere una parte dei cantanti. Non posso allestire un programma da montagne russe, perché come musicista devo essere in grado di condurre le transizioni da un pezzo all’altro gradualmente. I primi 5-10 minuti dell’Open Singing decidono se il singolo partecipante rimarrà o se ne andrà. Poi lentamente si può aumentare il livello di complessità, fino ai pezzi più impegnativi, collocati a un terzo del programma. Verso la fine deve tornare tutto più facile, per non perdere più nessuno per strada».

Molte persone non cantano perché si ritengono stonate. Che cosa si sente di dire loro?
«Chi ha una voce per parlare può anche cantare. Ovviamente è necessario anche un minimo di sostegno e di motivazione per esercitare l’orecchio. So di persone che si sono messe a studiare canto a più di cinquant’anni. Nell’Open Singing la mia filosofia è: “Non siamo a scuola! Non c’è nessuno che ti sgriderà”. Noi vi invitiamo a “camminare nei boschi” ma, se preferite, potete sedervi su una panchina e godervi la vista – che significa ascoltare gli altri che cantano. Altro consiglio: se non vi sentite sicuri, spostatevi un po’ più vicino a qualcuno che sembra più esperto! E non dimenticate che sul palco ci sono sempre un coro pilota e un pianista di prima classe molto motivati. Avete sempre a disposizione una locomotiva perfetta, ma potete sempre sedervi e godervi la musica (e senza pagare il biglietto…)»

Nicola Pedone