Genova

Un grande Battistoni per la cruda fiaba di Boheme

L'opera

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“O Mimì tu più non torni” canta Rodolfo nel quarto quadro di “Bohéme”. E Mimì è tornata venerdì sera al Carlo Felice per la gioia non solo del suo Rodolfo, ma dei tanti melomani che amano la “Boheme” pucciniana e accorrono in massa quando il palcoscenico la accoglie.
Platea folta, dunque, per un allestimento che i genovesi hanno già visto due volte negli anni scorsi.
Punto di forza ineccepibile, questa volta, la bacchetta direttoriale. Andrea Battistoni, sul podio dei complessi genovesi (ottima orchestra, coro ben preparato da Francesco Aliberti e coro di voci bianche ineccepibile sotto la guida di Gino Tanasini con la collaborazione di Enrico Grillotti) ha regalato una delle sue migliori interpretazioni di questi anni. Una lettura duttile, palpitante, ricca di colori e di dinamiche, con rallentandi ben sostenuti e con una eccellente cura dell’arco melodico. Una bella esecuzione musicale che ha avuto a nostro parere il suo momento migliore nel finale, la morte di Mimì, restituita con una  straordinaria intensità di accenti.

Sul palcoscenico i cantanti hanno avuto in Battistoni un valido supporto. Al suo debutto nel ruolo di Mimì, Rebeka Lokar ha evidenziato uno stile di canto elegante e rispettoso delle arcate pucciniane. Bene in “Mi chiamano Mimì”, ancor meglio nell’addio del terzo atto restituito con lodevole intelligenza interpretativa. Stefan Pop è un Rodolfo interessante e generoso, capace di belle soluzioni espressive soprattutto se non forza: quando la voce si fa tonante, perde in raffinatezza e il fraseggio ne risente. Michele Patti, Marcello, ha iniziato, a nostro parere con qualche difficoltà per riscattarsi lungo l’opera. Bene Lavinia Bini nella parte della brillante Musetta. Completavano il cast Romano Dal Zovo (Colline, applaudito dopo “Vecchia zimarra”), Giovanni Romeo (Schaunard) e Matteo Peirone (Benoit e Alcindoro).

L’allestimento, come detto, non era una novità ma rispetto al passato presentava qualche modifica. Non nella scenografia, coloratissima come i costumi, a firma del pittore genovese Francesco Musante che ha puntato su un’atmosfera da fiaba, evidente sin dalla prima scena: la soffitta dei quattro amici sembra una piccola capanna sospesa in alto e per lasciare il posto al successivo Caffè Momus ruota tintinnante come un carillon. Il regista Augusto Fornari nelle due edizioni passate aveva giocato con le atmosfere di Musante inventando per ogni personaggio un “doppio”, un bambino che suggeriva l’idea dell’eterna giovinezza interiore. Un bel colpo di teatro era la scomparsa dei bambini nella scena della morte, a significare la presa d’atto, tragica, da parte dei giovani artisti della fine dei loro sogni. Venerdì, invece, i bambini non si sono visti e l’idea della fiaba è parsa meno convincente, anche perché è difficile mantenere un tono leggero in tutto l’arco dell’opera pucciniana. Soprattutto, però, quello che ci pare sia mancato, è un coerente disegno interpretativo. Stride con la raffinatezza dei colori pastello e delle ambientazioni sognanti, la scena della romanza di Musetta (Quando men vo’”) cantata dalla ragazza in mezzo a una selva di mani che la palpeggiano. Alcune soluzioni, poi, sono parse discutibili: ad esempio, l’aggiunta di una coppia di mimi che litiga nel terzo atto distraendo dal formidabile quartetto creato da Puccini, oppure la torta di panna gettata da Musetta in faccia al cameriere o, ancora, la zimarra prima stesa sulla Mimì morente e poi tolta da Colline per andare a impegnarla. E’ mancato un lavoro approfondito sui personaggi troppo spesso imbarazzati o goffi nei gesti. Troppo confusa la complessa scena del caffè Momus dove ci si perde nella eccessiva policromia. Più efficace sul piano teatrale,  l’ultimo quadro.
Applausi calorosi, domenica pomeriggio replica alle 15.