Carlo Fuortes: il modello Roma

Perché l'Opera di Roma, dopo anni di crisi, è diventato un modello virtuoso tra le Fondazioni liriche italiane: l'intervista al sovrintendente Carlo Fuortes

Idomeneo all'Opera di Roma
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Articolo
classica

È una specialità italiana: quando le cose non vanno bene, si chiama uno straniero per trovare la soluzione. I teatri lirici non fanno eccezione. Davanti alle difficoltà legate a una produttività tradizionalmente molto scarsa quando non a pesanti situazioni debitorie, alcuni hanno preferito affidarsi al “papa straniero”. È il caso del Teatro alla Scala, che da oltre quindici anni è guidato da sovrintendenti non italiani e lo sarà anche nei prossimi anni.

Le eccezioni fortunatamente ci sono. Specialmente due teatri hanno cambiato radicalmente rotta da qualche stagione – Venezia e Roma – e senza regolamenti o leggi speciali. I risultati non hanno tardato ad arrivare e rischiano di diventare un esempio virtuoso anche per tutti gli altri. I segnali si vedono. Dopo il sovrintendente del Teatro La Fenice Fortunato Ortombina, abbiamo incontrato l’altro protagonista di questo risveglio, il sovrintendente dell’Opera di Roma Carlo Fuortes.

Il modello Fenice: intervista a Fortunato Ortombina

L’inizio non è stato facile, per Carlo Fuortes: nel 2013 il teatro era praticamente ingovernabile. Numerose rappresentazioni saltavano causa sciopero e soprattutto gravava un fardello di 40 milioni di euro di debito accumulato nelle precedenti gestioni. In cinque anni gli incassi della biglietteria sono passati dai 7,4 milioni a 15 milioni di euro nel 2019 e soprattutto le rappresentazioni di opera e balletto sono salite da 143 a 262 con un interesse sempre crescente nel pubblico per l’Opera di Roma che, dice lui con una punta di soddisfazione, «è tornato a far parte delle abitudini dei suoi abitanti». 

Carlo Fuortes
Carlo Fuortes

Carlo Fuortes, in pochi anni lei ha radicalmente trasformato uno dei simboli negativi del panorama culturale italiano in uno dei fiori all’occhiello delle fondazioni lirico-sinfoniche italiane: qual è il segreto? 

«Non ci sono ricette magiche. Credo che il segreto per arrivare a questi risultati sia la qualità – qualità delle produzioni e delle scelte artistiche – e i risultati si vedono nel corso degli anni. La qualità è l’aspetto che il pubblico valuta con attenzione. E i ricavi della biglietteria nel quinquennio sono raddoppiati, passando dai 7,4 milioni del 2013 ai 15 del 2019. Anche i contributi privati sono aumentati. Mentre i contributi pubblici nel quinquennio sono diminuiti. Il Teatro è stato risanato grazie agli spettatori!».

«Il Teatro è stato risanato grazie agli spettatori!».

Dunque è quella la ricetta da applicare in ogni teatro, in ogni realtà culturale? 

«Credo che ogni teatro sia un po’ un mondo a sé. Un teatro che si trova in una città con tre milioni di abitanti è chiaramente diverso da un teatro che sta in una città con 150 mila abitanti. In questo senso Roma è molto diversa da Bari, Venezia o da Milano e non credo ci siano ricette magiche valide per tutti. Nel caso di Roma, io provenivo da 13 anni di esperienza all’Auditorium di Roma, dall'apertura al 2015. Roma è una città che conosco bene: conosco il suo pubblico, ne conosco anche la reattività, che giudico molto, molto positiva».

«Ho sempre pensato che l'Opera di Roma fosse sottodimensionata dal punto di vista del numero di spettatori, cioè non fosse in grado di rispondere all’enorme domanda potenziale. Ho sempre vissuto a Roma. Ho amato l’Opera fin da ragazzino, e dunque mi sono sempre domandato perché quel teatro non fosse mai riuscito ad avere una risposta da parte del pubblico degna di una città importante. Va detto che Roma è una città molto particolare e con un’offerta culturale straordinaria. Farsi vedere, farsi riconoscere non è semplice».

Stando ai numeri ci siete riusciti: come? 

«Siamo riusciti a risvegliare quella domanda di cultura che, come sempre, è latente, è addormentata se non viene stimolata in maniera adeguata. Se però si stimola, immediatamente esplode. Insomma, c’erano tutte le condizioni per arrivare a dei buoni risultati ma confesso che quelli che abbiamo raggiunto sono molto superiori alle mie più rosee attese».

«Confesso che i risultati che abbiamo raggiunto sono molto superiori alle mie più rosee attese».

«Una delle mie soddisfazioni maggiori è constatare che l’Opera di Roma è decisamente entrata a far parte della vita culturale della città. Questo credo sia il risultato più importante». 

Prima del suo arrivo il teatro era ingovernabile. Minacciare di licenziare orchestra e coro, come lei fece, era l’unica soluzione possibile per riportare tutti alla ragione? 

«Dal punto di vista interno, molto importante è stato cambiare le regole del gioco, cinque anni fa, con un accordo sindacale che ha consentito una produttività molto maggiore, e un lavoro ordinato, senza scioperi. Questa era ovviamente una condizione indispensabile per arrivare ai successi odierni. Oggi posso dire che i nostri risultati si devono davvero all’impegno di tutti i lavoratori del teatro – orchestrali, coristi, ballerini, tecnici, e personale amministrativo. Tutti hanno capito che bisognava cambiare passo. È accaduto e di questo sono grato a tutti, perché non era affatto scontato nel 2014. Si veniva da una situazione poco meno che drammatica, a causa della crisi. Il cambio di passo è stato anche favorito dagli eventi, dalla situazione che allora era certamente molto complessa. Oggi, si lavora con grande tranquillità anche se i problemi non mancano come in tutti i grandi teatri e l’Opera con i suoi oltre 630 dipendenti è un grande teatro. A questo punto però i problemi sono diventati ordinari, non straordinari, e ingestibili, come allora. Se guardo ai progressi che abbiamo fatto in questi anni, confesso che sono molto fiducioso per il futuro». 

Incassi a parte, come valuta i risultati più significativi sul piano artistico di questa ritrovata pax interna? 

«Abbiamo molto investito nella qualità di ogni produzione. Tradotto significa riuscire ad avere i direttori più importanti del mondo, come in un qualsiasi altro teatro europeo o internazionale, significa avere un direttore musicale come Daniele Gatti, avere i più grandi registi e riuscire anche a realizzare coproduzioni internazionali con i principali teatri del mondo. Significa anche allargare lo sguardo alle altre arti, come è nella storia e nelle tradizioni migliori di questo teatro, che nel suo passato vanta collaborazioni con artisti come Pablo Picasso e Giorgio De Chirico, Giacomo Manzù e Renato Guttuso e prima Duilio Cambellotti e Enrico Prampolini, e ancora Marc Chagall, Giulio Turcato, Mino Maccari e molti altri».

«Oggi possiamo chiamare artisti come William Kentridge, per commissionargli uno spettacolo nuovo come Waiting for the Sibyl, che ha debuttato lo scorso settembre, o Ai Weiwei per la Turandot, che debutta a marzo di quest’anno, per sviluppare progetti originali, nati in questo teatro. Oppure personalità del mondo del cinema come Sofia Coppola che ha fatto Traviata nel nostro teatro con i costumi di Valentino. Non è solo una questione di nomi importanti ma di eventi culturali capaci di portare in teatro nuovo pubblico superando la cerchia, piccola o grande, dell’audience in qualche modo fidelizzata, allargando il bacino potenziale di spettatori dell’Opera di Roma. Questo è un aspetto di enorme importanza». 

Allarghiamo il campo all’Italia. Al netto di situazioni ancora complesse, lo stato delle fondazioni lirico-sinfoniche è generalmente migliore rispetto alla fase più acuta della crisi. Secondo lei cosa si dovrebbe fare per consolidare le conquiste del dopo-crisi? 

«Io credo che vada messo a punto il sistema di regole del finanziamento. Una cosa che oggi non funziona come dovrebbe. Noi sappiamo solo a ottobre il valore del finanziamento dal Fondo Unico dello Spettacolo che il teatro riceverà per l’anno in corso, quando cioè non c'è più alcuna possibilità di ridurre le spese o di fare delle correzioni. Bisognerebbe passare almeno a una triennalità, che consentirebbe maggiori margini di manovra oltre a migliorare molti aspetti della programmazione».

«Credo che vada messo a punto il sistema di regole del finanziamento. Noi sappiamo solo a ottobre il valore del finanziamento dal Fondo Unico dello Spettacolo, quando cioè non c'è più alcuna possibilità di ridurre le spese o di fare delle correzioni».

«Un altro punto, che è una speranza per il prossimo futuro, è che ogni teatro dovrebbe ragionare in base a una strategia, a un indirizzo non uguale per tutti ma che riflette il luogo nel quale opera. Questo non è ancora accaduto. L’omogeneità fra teatri diversi credo sia molto sbagliata. La crisi ha creato le condizioni affinché ognuno prenda maggiormente atto della propria realtà territoriale che significa, in termini finanziari, non appoggiarsi soltanto allo Stato ma ragionare anche con Comune, Regione, imprese e pensarsi di più come un fornitore di servizi culturali e sociali per quella realtà. Il tutto dando una maggiore considerazione verso il pubblico del proprio territorio. Se si lavora in quella direzione, alla fine potremmo ritrovarci con un panorama di teatri molto più variegato, che potrebbe rafforzare il sistema d'opera italiano nel suo complesso». 

Torniamo a Roma. Un cambiamento importante che lei ha portato al programma sono titoli non propriamente consueti del classico repertorio melodrammatico nazionale con un buon riscontro di pubblico. Ho in mente il grande successo dell’Angelo di fuoco della scorsa stagione ma anche il titolo che ha inaugurato questa stagione, cioè Les Vêpres siciliennes, per citare solo due titoli. Non teme di perdere pubblico con queste scelte non troppo convenzionali? 

«Al contrario. Queste scelte sono un fattore chiave per allargare il pubblico, per stimolarlo. Io credo che la chiave siano la fidelizzazione e la reputazione di un teatro. Detto più semplicemente, la cosa importante è non dare fregature: quando si fida, lo spettatore non pensa al titolo e nemmeno troppo ai cantanti o al regista. Impara a conoscere e apprezzare la linea del teatro e sa che rimarrà soddisfatto ogni volta che esce da uno spettacolo e quindi tornerà con piacere. Sa che c’è anche la possibilità di essere sorpresi».

«La cosa importante è non dare fregature al pubblico»

«Uno dei commenti frequenti degli spettatori, e che mi fa più piacere, è che “ogni volta che si viene non si sa quello che si vedrà”. Una forma di “serendipity”: arrivi pensando di vedere una cosa e poi magari ne scopri una completamente diversa. È un segno di fiducia nel nostro lavoro». 

L’allargamento del repertorio lirico è un aspetto importante così come, se mi passa il termine, è anche il suo allungamento, ossia l’investimento in nuovi lavori. Da questo punto di vista l’Opera di Roma non brilla troppo, come la maggior parte degli altri teatri lirici italiani. Nella scorsa stagione si è visto Un marziano a Roma di Vittorio Montalti mentre in questa nulla: non si dovrebbe fare di più in questa direzione? 

«Ha ragione. Dovremmo fare di più. E stiamo già lavorando in questo senso, anche con nuove commissioni a grandi compositori che saranno presenti nelle stagioni future. È inutile nascondere che oggi uno dei grandi problemi dell’opera è, appunto, la produzione di nuove creazioni. Purtroppo per molti motivi, che richiederebbero molto tempo per essere descritti e analizzati, dalla metà del Novecento la strada che ha preso il teatro musicale lo ha portato, nella maggior parte dei casi, su un binario morto. Si contano sulle dita di una mano i compositori contemporanei che sono entrati nel repertorio dei teatri d’opera».

In passato la fidelizzazione passava soprattutto per la formula di abbonamento: è ancora così? 

«Personalmente credo sia un modello sbagliato. Nel nostro teatro gli abbonati coprono meno del 10% dei biglietti e, quindi, non possono essere determinanti. In passato lo sono stati e questo è stato un grosso limite all’apertura delle scelte artistiche della programmazione. Il teatro deve essere pensato per tutti gli spettatori e “anche” per gli abbonati. Di fondo c’è un problema di “democrazia”: parliamo di un teatro pubblico, che riceve quattrini dei contribuenti tramite lo Stato. A ben vedere gli abbonati sono dei privilegiati – dei beneficiati e non dei benefattori – perché comprano a un prezzo basso un servizio che invece allo Stato costa molto. Il paradosso, e non solo italiano, è che il teatro è pagato da chi a teatro non ci va: questo è un elemento che chi gestisce un teatro pubblico deve avere molto chiaro in testa».

«A ben vedere gli abbonati sono dei privilegiati perché comprano a un prezzo basso un servizio che invece allo Stato costa molto. Il paradosso, e non solo italiano, è che il teatro è pagato da chi a teatro non ci va».

«L'idea di allargare il pubblico non deriva solo dall’obiettivo di avere un teatro sempre pieno o fare maggiori ricavi dalla biglietteria, ma riflette anche l’esigenza di un teatro pubblico: fare in modo che il nostro servizio possa arrivare al maggior numero di persone possibile perché, ripeto, chi non va a teatro è quello che paga anche per gli altri».

Una parola sempre più citata dai suoi colleghi europei è “inclusione”. Concretamente cosa fa il suo teatro in questa direzione? 

«Se non c'è legittimazione sociale per un teatro non si va molto lontano e l’inclusione è un elemento fondamentale. Per troppo tempo si è considerato il teatro come un servizio per pochi, e per di più molto abbienti, pensando che quello fosse il bacino di domanda ma non è assolutamente quello. In questo senso, noi da anni cerchiamo non soltanto di portare più gente possibile al Costanzi, ma portiamo anche l’opera in periferia con l’Opera Camion. È un progetto con il quale il Teatro esce dal consueto spazio scenico teatrale e si diffonde nelle piazze della città. Abbiamo sinora programmato tre appuntamenti estivi con questo progetto: nel 2016 con Figaro!; l’anno successivo con Don Giovanni, nel 2018 con Rigoletto e la scorsa estate di nuovo con Figaro!».

«Nella prossima estate il progetto raddoppia: metteremo in scena sia Tosca, l’opera romana per eccellenza, che L’opera da tre soldi di Brecht e Weill, in coproduzione con il Teatro di Roma. Opera Camion si avvale della regia di Fabio Cherstich, che è stato l’ideatore di questo progetto, e delle scene e costumi di Gianluigi Toccafondo, che cura anche in modo straordinario tutta l’immagine del nostro Teatro». 

«Tutti questi titoli hanno girato o gireranno per le piazze di Roma e del Lazio sul camion, ormai famoso in città, appositamente attrezzato per contenere le scene e i cantanti. Il punto essenziale è stato e rimarrà quello di una scelta, essenziale ma di grande qualità, volta a volta di uno spettacolo d’opera, in una versione appositamente ridotta.  Possiamo così raggiungere gratuitamente un grandissimo numero di spettatori, anche in piazze romane, o in luoghi del Lazio che per più motivi non hanno contatti con il mondo dell’opera lirica, ma che non mancano di appassionati. Ce lo dimostra il “tifo”, davvero da stadio, che accoglie i nostri spettacoli sin dall’arrivo in piazza del camion e degli artisti. E infine voglio anche sottolineare che la parte strumentale è sempre dalla nostra Youth Orchestra, la realtà giovanile istituita dal Dipartimento Didattica e Formazione del Teatro dell’Opera di Roma e formata da oltre cento musicisti, con già al suo attivo un ricco curriculum di attività». 

Un altro esempio dell’apertura dell’Opera di Roma a un nuovo pubblico? 

«Mi permetta di raccontare anche una esperienza concreta di qualche mese fa che dimostra il nuovo rapporto tra il teatro e la città e un’altra forma di inclusione. La scorsa stagione si è conclusa con una coproduzione con Madrid, Toronto e Copenhagen dell’Idomeneo con la regia di Robert Carsen, che ha trasformato la vicenda in una storia di migranti nel Mediterraneo, che oggi come millenni fa unisce e divide i popoli. Robert voleva avere circa 150 persone in scena, il che richiedeva un gran numero di mimi e figuranti. Ho pensato di chiedere una collaborazione con la Comunità di Sant'Egidio, una istituzione di accoglienza fondamentale per Roma, per verificare la possibilità di coinvolgere nello spettacolo profughi e migranti ospitati nella Comunità. E così, nonostante qualche perplessità iniziale di  Robert Carsen, che poi è stato felicissimo del risultato, circa quaranta immigrati sono entrati in scena e hanno portato sul palcoscenico il loro vissuto drammatico che ha aggiunto una grande densità artistica, sociale e politica all’opera».

«Non solo. All’anteprima abbiamo invitato circa 600 persone della Comunità di Sant’Egidio che entravano per la prima volta in un teatro lirico. La reazione è stata straordinaria. La musica e l’opera sono un linguaggio universale che arriva direttamente a tutti e supera le diversità culturali e le barriere linguistiche».

Non lo chiedo ovviamente un giudizio sui suoi colleghi stranieri di fresca nomina in vari teatri lirici italiani. Le chiedo piuttosto: crede sia la risposta giusta a una cronica debolezza gestionale dei nostri teatri lirici? 

«Giusto o sbagliato non sta a me dirlo. Dico invece che la cosa non mi preoccupa perché il mercato dell'opera è un mercato internazionale e quindi normalmente si deve operare in Europa e nel mondo. Chiunque faccia questo lavoro deve ragionare su uno spazio geografico ovviamente più ampio che l’Italia. La questione deriva da un limite italiano che è anche quello che ha originato la crisi, cioè il sistema dei teatri d’opera italiani era un sistema “a copertura di deficit”, nel quale lo Stato interveniva indipendentemente dalla buona o cattiva gestione. Tutto questo ha portato a una forte dipendenza dalla politica che spesso ha imposto nei ruoli direzionali dei teatri professionalità non sempre adeguate. Credo sia stato un grandissimo errore. Perché questo non ha creato una classe dirigente in linea con le esigenze attuali di gestione di un teatro d'opera, come in parte accaduto per i grandi musei italiani».

«Il fatto che si vadano a pescare i sovrintendenti negli altri paesi è la risposta a questo deficit di professionalità manageriali, ma non è un bel segno».

«Il fatto che si vadano a pescare i sovrintendenti negli altri paesi è la risposta a questo deficit di professionalità manageriali, ma non è un bel segno. Detto questo, la cosa ovviamente mi dispiace perché l’opera probabilmente è il genere italiano che più contraddistingue il nostro paese. L’Italia è l’opera: è la lingua, è la musica, è i costumi, è la scena. L’opera è assolutamente l’Italia». 

Ha ancora senso un teatro musicale oggi? 

«Io sono convinto che il teatro musicale sia incredibilmente moderno e abbia un futuro molto importante. La musica riesce a portare avanti una drammaturgia in un modo straordinario, nel senso che può coinvolgere tutte le arti. Sicuramente la multidisciplinarietà è il tratto forse più importante nell’arte oggi. Non è un caso che tutti i più grandi artisti, attivi anche in altre discipline, siano molto interessati a fare esperienze con l’opera. Il fatto che la parola nel teatro musicale sia in qualche modo secondaria alla musica fa sì che si possa continuamente rendere attuale questo genere artistico. Credo che sia questa la grande forza dell’opera». 

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